Proposta Radicale 2/3 2022
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Editoriale

Una crisi che viene da lontano

di Valter Vecellio 

Un poeta francese con un passato di resistente ai nazisti nel maquis, René Char, nel 142esimo canto de “Feuillets d’Hypnos” annota: “Le temps del monts entagés / et de l’amitié fantastique”. Un altro poeta, Giorgio Caproni, così traduce quei versi: “Il tempo dei monti furenti / e dell’amicizia fantastica”.

Poche frasi in un biglietto conservato come una laica reliquia. La data è quella del 1982, ma quarant’anni dopo nulla hanno perso della loro attualità. È Leonardo Sciascia che scrive: “Bisogna cominciare a contarsi, come diceva Seneca per gli schiavi. Si scoprirà, allora, che siamo isolati ma non soli. Non numerosi, ma sufficienti per contrapporre, come diceva De Sanctis, l’“opinione” alle “opinioni correnti”.

Terza e ultima citazione: la canzone “Lavori in corso” dei Gen Rosso (magari nella versione di Francesco Guccini): “C’è bisogno di silenzio, c’è bisogno di ascoltare / c’è bisogno di un motore che sia in grado di volare / C’è bisogno di sentire, c’è bisogno di capire / c’è bisogno di dolori che non lasciano dormire / C’è bisogno di qualcosa, c’è bisogno di qualcuno / c’è bisogno di parole che non dice mai nessuno…”.

La genesi della crisi del governo presieduto da Mario Draghi, come si è arrivati allo scioglimento del Parlamento, alle elezioni anticipate, le responsabilità e colpe, sono storia nota. Non vede e ignora solo chi ha deciso di chiudere gli occhi e di non sapere.

Sull’operato del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il suo “fare”, la sua moral suasion, i suoi silenzi, ognuno può dare i giudizi che crede. Un fatto non è discutibile: come già per Giorgio Napolitano, anche Mattarella viene rieletto perché una classe politica che di politico non ha nulla, non riesce a “offrire” un’alternativa. O Mattarella o il vuoto; e così anche per Draghi: a trent’anni dallo tsunami di Tangentopoli, che ha spazzato via partiti e politici della prima Repubblica, il nulla. Con l’aggravante di una situazione a dir poco surreale, indice e cifra di pavidità da una parte, di mediocrità dall’altra. Prima non si è voluto Draghi presidente della Repubblica perché doveva assolutamente continuare a fare il presidente del Consiglio; poi lo hanno cacciato via.

Siamo al punto d’approdo (forse non definitivo: al peggio non c’è mai fine), di una crisi grave e strutturale, di un regime di a-democrazia cattiva che si trascina da tempo e viene da lontano. È quella tragedia italiana, europea e mondiale da cui, in tempi non sospetto, Marco Pannella e il Partito Radicale hanno cercato di mettere in guardia quando hanno elaborato quell’attualissimo documento sulla “peste italiana”. Un testo che si può aggiornare e arricchire con ulteriori elementi, ma l’essenza è enucleata, non ha purtroppo perso nulla della sua attualità.

È una crisi che viene da lontano. Da questo punto di vista, Beppe Grillo, Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Silvio Berlusconi sono solo gli ultimi anelli di una lunga catena. Non meno colpevoli e responsabili sono tutti gli altri attori e comprimari: hanno lasciato “vuoti” che altri si sono ingegnati a riempire. Non hanno saputo e voluto offrire alternative credibili; hanno anzi lucrato sulle macerie, sulle devastazioni, costruito le loro fortune, speculato, cercato di farne la foglia di fico per le loro incapacità di essere e fare forza di governo. Sono tutti coinvolti, sono tutti responsabili.

C’è, in questo scenario, un convitato di pietra: da più di un decennio ormai si è costituito il vero partito maggioritario nel Paese: quello di chi rinuncia a votare, respinge in blocco tutto il sistema dei partiti. Da tempo almeno la metà di quanti hanno diritto al voto decide di non esercitare questa facoltà perché delusa, frustrata, non si riconosce in nessuna delle offerte politiche che vengono avanzate. Sono corposi segmenti di società che sono respinti, e respingono a loro volta. Prima o poi si accenderà una scintilla che provocherà un incendio di proporzioni difficilmente controllabili; certo non con gli strumenti fragili e modesti di questo regime di a/democrazia cattiva.

Con un quadro politico, nazionale e internazionale, magmatico, fosco, inquietante, davvero può accadere tutto e il suo contrario. Una situazione simile a quella che nei primi anni del secolo scorso faceva dire a Benedetto Croce: «La reazione fa progresso, e con essa il suo fido indivisibile compagno, il cretinismo».

Lo storico bolognese Fulvio Cammarano, nella sua pregevole “Storia dell’Italia liberale” prende in esame un quarantennio cruciale , quello che va dal 1861 al 1901; sottolinea «…la mancata parlamentarizzazione, cioè la coerente trasformazione dei conflitti sociali in conflitti politici attraverso il radicamento della rappresentanza del conflitto, finì per evolversi in parlamentarismo, vale a dire nel primato di una rappresentanza parlamentare finalizzata a cristallizzare la conflittualità sociale, evitandone l’emancipazione in senso politico». Un parlamentarismo che diventa «l’emblema dell’impotenza politica, fonte di malcontento e frustrazione soprattutto per una considerevole parte del ceto intellettuale che finì per identificare il Parlamento con il regno delle ‘miseriÈ particolaristiche e dunque estraneo, se non ostile, ai reali processi di omogenizzazione culturale e politica del paese. Il parlamentarismo rispecchiava inoltre l’effettiva mancanza di un’alternativa di governo all’interno delle stese forze costituzionali».

Cent’anni fa. Sembra oggi. Questa la situazione, questi i fatti.

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